Alla scoperta dei luppoli

Anno nuovo, rubrica nuova: iniziamo insieme un viaggio alla scoperta di uno degli ingredienti distintivi della birra, il luppolo – che già abbiamo conosciuto nella rubrica dedicata alla storia, quando abbiamo parlato degli studi di suor Hildegard Von Bingen che ne hanno sancito l‘utilizzo sistematico nell’arte brassicola a partire dal XII-XIII secolo.

I luppoli hanno acquisito, complici anche alcune campagne pubblicitarie, una crescente popolarità negli ultimi anni; portando all’errata convinzione che, più una birra contiene luppolo e tante più tipologie ne contiene, tanto più è buona e di qualità. In realtà, come per qualsiasi ricetta, non conta né il numero né la quantità degli ingredienti in senso assoluto: ma il loro sapiente dosaggio e utilizzo in vista del risultato finale. Così può essere di altissima qualità una birra monoluppolo, mentre una che ne contiene sette o otto varietà potrebbe risultare sgradevole se queste non sono ben bilanciate.

In primo luogo va ricordato che il luppolo (humulus lupulus) è una pianta rampicante (arriva fino a 6-8 metri) appartenente alla famiglia delle cannabacee (sì, avete capito bene, la stessa della celeberrima cannabis sativa: infatti condividono alcune proprietà rilassanti e antiossidanti). Ha ciclo annuale (fiorisce in estate, e i coni vengono raccolti a fine agosto-inizio settembre) ed è una pianta dioica (presenta cioè la varietà maschio e femmina). Per la produzione di birra si utilizzano i fiori della femmina; mentre il maschio (quelli che in Veneto vengono chiamati bruscàndoli, e in Friuli urticiòns) è ampiamente diffuso a livello selvatico, e costituisce la materia prima per diversi piatti della tradizione popolare. In Italia la coltivazione del luppolo a scopo birrario è stata introdotta solo in tempi relativamente recenti, partendo da luppoleti sperimentali; grandi produttori sono soprattutto Germania e Stati Uniti.

I luppoli vengono utilizzati sia per aromatizzare che per amaricare (ossia dare il gusto amaro) alla birra. A conferire profumo sono principalmente gli olii essenziali; mentre a dare l’amaro sono sostanze chiamate alfa-acidi. A seconda del maggiore o minore contenuto degli uni o degli altri, le diverse varietà di luppolo vengono classificate come da amaro oppure da aroma (più alcune utilizzabili per entrambe le funzioni): nel primo caso verranno gettati nel mosto verso l’inizio della bollitura (così che gli alfa-acidi possano disciogliersi in acqua), mentre nel secondo verranno gettati verso la fine o addirittura a freddo (il cosiddetto dry hopping), affinché gli olii essenziali non evaporino.

Non bisogna comunque dimenticare la ragione per cui il luppolo ha iniziato ad essere utilizzato, ossia le sue proprietà antibatteriche e antiossidanti che contribuiscono alla conservazione della birra: per cui, per quanto noi oggi ne facciamo esclusivamente una questione di gusto, dobbiamo comunque ricordare questo aspetto fondamentale.

Sono oggi quasi un centinaio le varietà di luppolo conosciute – e ne vengono continuamente sviluppate di nuove -, diverse appunto per caratteristiche aromatiche e amaricanti; sono però circa una ventina quelle più comunemente utilizzate, di solito raggruppate in base alla loro zona d’origine (luppoli tedeschi e continentali, inglesi, americani, e in anni più recenti anche dell’Oceania). Vengono di solito utilizzate in pellet (analoghi a quelli utilizzati per le stufe, in quanto di più facile conservazione), ma si utilizzano ancora anche in fiore.

Bene, ora siamo pronti a partire per questo viaggio alla scoperta dei luppoli utilizzati nelle birre di B2O: nei prossimi numeri della newsletter li vedremo uno ad uno, insieme alle birre in cui vengono utilizzati; così da poterli apprezzare ad ogni sorso.

 

Buon viaggio!